|
Ada De Pirro "La
microstoria narrata da Lino Fois"
Catalogo mostra personale Oggetti animati Cagliari,
2017
Concettina Ghisu "Contiene
un'intervista a Lino Fois"
www.cagliariartmagazine.it
Cagliari, 2017
"Il nome della cosa / sulla logica del paradosso"
Catalogo mostra Macchine
Cagliari, 2012
Silvia Veroli
"Macchine impossibili e parole fantastiche,
per pensare"
ilBo
Padova, 15-11-2012
Margherita Dessanay
"Macchine
by Lino Fois"
Frameweb
Londra, 22-11-2012
"LEGGERE"
L'ARTE TRA LE RIGHE: le opere gentili e ironiche
di Lino Fois
rivista Link
Cagliari, Luglio 2004
Marzia Marino
"Le macchine aggiustaumore di
Lino Fois"
L'Unione Sarda
Cagliari, 13-11-2012
"Al suono del Carillon dentro le scatole si animano le fiabe"
L'Unione Sarda
Cagliari, 19-10-2009
"Rebus, i giochi di memoria di Lino Fois"
L'Unione Sarda
Cagliari, 26-4-2007
Mauro Manunza
"Ma questa fotografia è una vera bugia.
Lino Fois indaga l'affascinante rapporto parola-immagine "
L'Unione Sarda
Cagliari, 27-11-2010
Alessandra
Menesini
Carillon
presentazione della
mostra Carillon
Cagliari, 2009
Rebus
catalogo multimediale mostra REBUS
Cagliari, 2007
Falsa riga
catalogo mostra
Falsa riga
Cagliari, 2004
Iole
Garau
"Coreografie interiori"
Novembre 2009
Andrea Delle Case
la "FALSA RIGA"
di Lino Fois
Godot news
Cagliari, maggio 2004
Viviana Bucarelli
Lino Fois all'Exmà. se la
fotografia incontra la calligrafia
L'Unione Sarda,
Cagliari 8-5-2004
|
La microstoria narrata da Lino Fois
“Giochi di bambini abbandonati nella stradina secondaria,
la Strada dei Passi perduti, con le linee di gesso del gioco
del mondo tra luci e ombre del tardo pomeriggio.
Anticamente il gioco simboleggiava il labirinto in cui
si spingeva a calci un sassolino bianco e piatto - l’anima -
verso l’uscita, il punto di fuga con il suo cielo senza nubi" .
C. Simic, Solitudine, madre mia, raccontami ancora la mia vita,
in Il cacciatore di immagini, 2005
Parole e infanzia A metterli tutti in fila gli oggetti
animati di Lino Fois diventano un racconto, anzi secondo la
proprietà combinatoria che permette miliardi di possibilità,
diventano infiniti racconti. A tessere la trama c’è la parola nei
lunghi titoli dal loro senso apparente ma c’è anche la lingua
inventata, depositata su tutte le opere, fatta di segni che alludono
alla scrittura. E ci sono gli oggetti che tautologicamente sembrano
interpretare alla perfezione le dichiarazioni espresse nei titoli.
Questi sono qualcosa di più di semplici indicatori dei soggetti
delle opere. Nella serie qui esposta sono articolatamente
didascalici e narrano di oggetti che vivono microstorie piene di
sentimenti, frustrazioni e aspettative proprie degli esseri umani.
Abituati alle opere di Fois portatrici di poetici mondi sospesi tra
senso e nonsenso, complici i calembour e i giochi di parole, ora i
fatti narrati attingono al particolare nonsense che appartiene al
mondo primigenio dell’infanzia, in cui, oltre agli animali, è
normale che vengano umanizzati pennini, addobbi natalizi, vecchie
fotografie e palette da spiaggia.
Come nell’orientamento storiografico della ‘microstoria’ anche qui
dai fatti minimi della vita quotidiana – o della sua trasposizione
fantastica – si indaga un aspetto della mentalità
collettiva, ovvero il mondo sopito della nostra fantasia così come
può emergere nel sogno o nelle fiabe per bambini. Il mondo
dell’infanzia non è un mondo meraviglioso e incantato, come già Paul
Klee aveva percepito e come le fiabe a volte ci mostrano, ma un
luogo originario carico di energia, bellezza e anche conflittualità
da raccontare con senso di innocenza ma con ironia e a volte
malizia.
Nell’opera di Fois c’è un continuo gioco di ricreazione di materiali
che appartengono al nostro quotidiano (anche se lontano) e che si
ibridano secondo libere associazioni create da slittamenti di senso
che ha illustri precedenti, come nell’incredibile lavoro di Bruno
Munari.
Ma Fois adotta fin dalle sue prime serie (Falsa riga, Rebus,
Amorosi legami e altri) un timbro marcatamente antitecnologico e
quasi artigianale che in quei lavori suscitava un approccio
sentimentale con il passato di personaggi inventati in cui l’artista
sembrava immedesimarsi.
Questa sua inclinazione fa pensare a Giuseppe Pontiggia che in
Vite di uomini non illustri (1993) ha creato biografie
immaginarie di personaggi inventati e caratterizzati dal loro essere
assolutamente comuni, descrivendole attraverso passaggi
significativi delle loro vite.
Lì le brevi descrizioni, nelle opere di Fois il repertorio di
oggetti, fotografie e grafie inventate che tutti insieme
imbastiscono storie di personaggi inesistenti ma nelle quali
possiamo immergerci.
Nella nuova serie degli Oggetti animati, dall’oggetto che
racconta di vite ipotetiche si passa all’oggetto che racconta di sé
stesso, umanizzandosi.
Poesia del nonsense
Il titolo singolo e i titoli tutti insieme (con la possibilità
di cambiar loro di posto nella sequenza), diventano quindi la voce
narrante di un cantastorie immaginifico. L’artista anima parole e
oggetti mettendoli in relazione e sembra indicarci la chiave di
lettura, che inevitabilmente ci disorienta e ci fa sorridere. Gli
oggetti presentati si animano nelle nostre associazioni mentali -
attivate dai titoli -, facendoci riscoprire la fantasia che nel
tempo dell’infanzia dava vita a mondi inventati come riflesso di
attese, paure e sentimenti. Il particolare tipo di assemblage
operato sulla parola e sulle composizioni di oggetti che diventano
congrui per volontà dell’artista, è proprio del nonsense che
troviamo nelle filastrocche e nelle nenie in cui la poesia entra di
diritto, scardinando il senso comune e liberando il pensiero.
I luoghi del nostro immaginario diventano il filo conduttore che
lega tutte le opere in mostra, offrendo la possibilità di suscitare
in noi spostamenti continui tra oggetti desideri e memoria e la
conseguente creazione di un racconto interiore che diventa la nostra
particolare poesia. Nostra perché nutrita dal nostro personale
vissuto.
La fotografia come oggetto malinconico
Macchina fotografica apparentemente senza alcuna nostalgia è una
delle opere in mostra.
Presenta una vecchia Koroll 35 tra angolini per fotografie e un
mucchietto di piccole foto di alcuni decenni fa. Un omaggio alla
grande passione di Fois per la fotografia, in particolare per la
fotografia trouvée proveniente forse dagli album di famiglia. Foto
un po’ ingiallite che raccontano volti e situazioni di personaggi
colti in un tempo immobile, immortalati da qualche ignoto fotografo
dilettante.
Le fotografie degli anni ’50, così come gli oggettini prelevati
dalla stanza di qualche ragazzino o le cose dimenticate nell’angolo
di una cantina, hanno sicuramente l’aspetto tranquillizzante delle
forme create da un bricoleur del ricordo, ma che diventa più
enigmatico e nascosto se ci accorgiamo del delicato velo di
malinconia che sembra esservi stato appoggiato sopra. La fotografia
assume il ruolo di oggetto in mezzo a oggetti, ognuno con la sua
storia e che insieme ne raccontano altre.
Susan Sontag ha definito la fotografia un’arte crepuscolare
soprattutto perché è insieme una pseudo presenza e l’indicazione di
un’assenza. L’autrice considera la fotografia come l’espressione
artistica più vicina al surrealismo, considerando come “l’azione
surrealista sulla storia comporta anche un sottofondo di melancolia,
insieme con una voracità e un’impertinenza di superficie”, che
consente di creare un catalogo di cose perdute, arrivando a
definirla come “inventario della mortalità” (Sulla fotografia,
2004, p.62).
Nelle opere di questa mostra tra foto che diventano oggetti e
oggetti che fotografano - attraverso accostamenti spiazzanti - stati
dell’animo, ci ritroviamo continuamente immersi nel meccanismo del
vero/ verosimile/ quasi vero/ falso che apre sui mondi inventati
dalla fantasia dell’artista ma mai veramente lontani. Anche se
perduti.
Cose
Se si può parlare di ‘poetica dell’oggetto’ per i Ready made da
Duchamp in poi, confronto inevitabile quando uno o più oggetti
vengono prelevati dalle loro realtà di riferimento e presentati per
quello che sono o in associazione con altri oggetti altrettanto
straniati, c’è un particolare modo di presentarli, assemblati entro
spazi isolati come contenitori in legno e altri materiali. Mi
riferisco alle scatole dense di poesia di Joseph Cornell, artista
amato dai surrealisti. Le sue opere sono frutto di quotidiane
incursioni nelle botteghe di rigattieri di New York dove ogni sorta
di oggetti, tra cui molte fotografie ritagliate da riviste e
dépliant, venivano assemblate in scatole trasformandosi in un diario
pieno di sentimento e meraviglia.
Ogni scatola ci racconta, attraverso le associazioni più o meno
esplicite, singoli momenti, aspettative e sensazioni provate
dall’artista che ha lasciato anche tantissimi diari scritti su
taccuini e fogli volanti (ora conservati al museo Smithsonian di
Washington).
Una forma di collezionismo questa, vicina a quella di Fois che
inventa storie e le racconta inchiodando oggetti su tavolette, le fa
dialogare con i titoli e con le opere a sfondo ‘quasi’ monocromo
sulla parete. Tutto rigorosamente di piccolo formato e, per questo,
appena sussurrato.
Con lentezza
Come nelle altre serie, tutto contribuisce a creare un’atmosfera
sospesa dove la memoria, evocata dagli oggetti organizzati nelle
relazioni scelte dall’artista, attualizza eventi per lo più
inventati. Nelle opere in mostra si ha l’impressione che sia la
dimensione temporale a diventare il vero soggetto. Un tempo che
appartiene sicuramente a quello dilatato dell’infanzia (o se si
vuole dell’estrema vecchiaia), in cui la linearità salta
completamente rendendo passato
e presente frammenti di una medesima attualità.
Un tempo che chiede una necessaria estensione dello sguardo e una
disposizione ad accogliere con lentezza la percezione dell’opera.
Come quando si cerca di decifrare una scrittura illeggibile di cui
siamo convinti che nasconda una segreta chiave di lettura, di cui
abbiamo perso memoria.
Nelle tele ‘quasi’ monocrome che dialogano con gli oggetti animati,
abbiamo la possibilità di perderci nell’inseguire i segni
calligrafici che liberamente circolano sulla superficie e allora
inciampiamo in una piccola, minuscola, immagine fotografica che
sembra essersi smarrita in quei luoghi da chissà quale altra
dimensione. Un frammento di passato che affiora piano piano sul
presente o viceversa, portando con sè lo stupore di oggetti -
Annibale, Emilia, Vladimiro - nei quali riconoscere, con altrettanta
lentezza, qualcosa di noi.
Ada De Pirro
torna su |
|